martedì 26 ottobre 2010

Dormi

Ci sono cose che uno non dovrebbe mai sapere, che le orecchie non dovrebbero mai sentire. Dovrebbero smettere di recepire i suoni, o come funziona in una certa patologia che mi spiegava M. non tradurli in segni riconoscibili. Il danno è fatto e non si torna indietro. Il danno è fatto ed è stato detto, si è raddoppiato, è diventato un mostro viola con gli occhi gialli pieno di peli e col fiato corto. Le lenzuola mi hanno già stretta nella morsa notturna, ho già dovuto combatterle, ho già dovuto soffrire il freddo, ho già dovuto ucciderle e chissà quante altre volte dovrò farlo ancora. E ancora.

Vorrei solo fare la cosa giusta.
Non esiste la cosa giusta, devi stare al tuo posto, zitta.

Funzionava così, era un gioco di bambini, un gioco sporco, di quelli che non bisogna dire a nessuno.
- Non ho mai avuto paura.
- Che intenzioni hai?
- Non dirò mai niente a nessuno, sei l'unica a saperlo.

Avrei voluto non essere io, l'unica. Non ho le spalle abbastanza larghe, non ho più i muscoli di un tempo nelle cosce. Non so che dire, non sono abbastanza grande, anzi, sono proprio piccola, minuscola, insignificante. Io non esisto. Perchè? Perchè io?

I feel too young to hold on
I'm much too old to break free and run


And now I know...

Certe cose uno dovrebbe tenerle per sè.
E' giusto liberarsene per limitare i danni futuri.
E se non si facesse altro che crearne altri di danni?
Ma è piccolo e ti è legato col sangue, io mi domando perchè non te l'abbia detto prima. Prima o dopo cosa vuoi che cambi?
Io ci sto troppo dentro, ne uscirò rotta. E più di me altri. Io lo so che scoppio, io lo so.
Non sei tu la posta in gioco adesso, tu devi solo essere a disposizione, ricordi? Basta cercare un buon ritmo cardiaco... Non fare cose avventate, aspetta. Non prendere l'iniziativa. Rispetta. Silenzio. Combatti il tuo mostro notturno, sguainerò la spada per te e tu sarai me e ti sentirai forte. Dormi...

sabato 23 ottobre 2010

Un succo alla pera

Sedute al tavolino di un bar nel centro dell'unica città capace di farsi amare come fosse un dio onnipotente, guardavo retrospettivamente la mia vita e quella della mia amica dagli occhi tristi. Mi assediava di domande e, prima che io avessi il tempo di formulare delle frasi di senso più o meno compiuto, si dava le risposte che subito prontamente cancellava con il tarlo dell'incertezza o con una nuova incalzante domanda. Il succo del discorso, denso quanto quello alla pera che stavo sorseggiando accanto a stranieri che bevevano birra e ci guardavano parlare -non ho la certezza fossero stranieri, ma ho buoni motivi per crederlo- era riuscire a capire perchè nell'arco di così poco tempo sebravamo cambiate così tanto.
I: "Diventare grandi significa avere paura? Quando ero più giovane non mi fregava niente, avevo le mie idee luminose e in esse ci sguazzavo onnipotente. Degli altri avevo compassione se non potevano capire, o ne cercavo l'approvazione se ritenevo degni. Poi cosa è successo?"
T: "Non lo so. Quando ero più giovane guardavo al futuro come ad un oceano di possibilità inesplorate, e quella fame mi spingeva/spinge, non lo so, a cambiare strada, a non accontentarmi, a non prendere mai decisioni definitive, non imboccare mai una strada che sia una da studiare, approfondire, sapere, sentire mia. E questo alla lunga mi ha destabilizzata. Adesso che comincio a sentire l'esigenza di costruire qualcosa, l'icertezza mi assedia, e ho perso insieme all'entusiasmo tutta quella insensata fiducia e sicurezza in me e nel mondo."
I: "Dunque diventare grandi significa prendere delle decisioni ed assumersene la responsabilità. Significa saper reggere la noia e dover scendere a compromessi con se stessi?"
T: "Sì, qualche volta sì. Senza necessariamente tradirsi però. Significa capire con chi hai a che fare e agire di conseguenza, non per trarne il maggior profitto, ma solo semplicemente per capirsi, che è già di per sè complicatissimo."
I: "Non so se ce la faccio. Stare nella realtà non è mai stato il mio forte."
T: "Io ho già scelto. Io ho bisogno degli altri."
I: "Quanto mi manco..."
T: "Ahahah, già..."